cito questo Articolo che trovo molto appropriato dopo la discussione fatta da Tommi.
La linea d'ombra del comando
di BARBARA SPINELLI CI VIENE spesso
dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi
ferree leggi, la sapienza del comando. Quest'arte ruvida, che in
democrazia è sempre guardata con un po' di diffidenza, quasi fosse arte
legale ma non del tutto legittima. C'è diffidenza perché l'immaginario
democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è
idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando.
Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del
comando è la logica conseguenza, in qualche modo l'ornamento. Ma la
responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il
comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile.
Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio
di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente
anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite,
quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre
che qualcuno ci sia. L'esempio lo conosciamo ormai: ce l'ha dato
Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di
porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al
comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare
frasi sull'inaudita trasgressione appena commessa: l'abbandono del posto
di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e
equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile
dimenticare il tono di quell'ingiunzione a rispettare le regole:
incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s'era udita a Capodanno,
inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori
fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può
essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al
tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - "mettendo le
mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse". È come se
da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la
chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni,
fosse la cosa che più ci manca. Manca d'altronde non solo da noi ma
anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce
perché è assente, ai vertici dell'Unione, l'occhio in più che dia
l'ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in
salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente,
perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la
fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei
padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo
stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l'urlo di chi s'indigna e
l'urlo di chi dall'alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida
menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre
un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo
in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la
potenza accumulata dalla cultura dell'urlo. L'intimazione stentorea di
autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di
finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come
bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto
in de Falco un eroe ma non è un eroe. Il suo modo d'essere dovrebbe
essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero
sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci
rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a
amici complici in irresponsabilità, e impunemente s'avvolgono nella
propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa
le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi
romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e
decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il
protagonista di Tifone: "Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan,
aveva, per quanto concerne l'aspetto esteriore, una fisionomia che
rispecchiava fedelmente l'animo suo: non presentava alcuna distinta
caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche
pronunciate d'alcun tipo; era soltanto comune, insensibile e
imperturbabile".
Il comando non è solo imperio della legge, rule
of law. C'è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas
degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In
democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa
di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce
n'è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un'emergenza,
ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell'imperio della
legge e del carisma. Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra
Linea d'ombra: d'un colpo scorgiamo innanzi a noi "una linea d'ombra che
ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch'essa, la
dobbiamo lasciare addietro". Il protagonista del racconto affronta a
quel punto la massima prova esistenziale: l'esercizio del comando.
Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il
prezzo - in dolore, rimpianto, vita d'angoscia - del peccato originale
commesso quando abbandonò la nave. La linea d'ombra, in Italia, è come
se non la scorgessimo mai. C'è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel
nostro rapporto con l'autorità, la legge, lo Stato.
Stentiamo a
capire una cosa, dell'ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è
quello che ci protegge dall'esplosione dell'urlo scomposto, dal caos
propizio allo Stato d'eccezione. Fu con l'urlo che Hitler s'affacciò al
mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt
Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal '31 quel che nel futuro
dittatore più spaventava: "Non l'uomo in sé, che non esiste. Ma il
rumore, che egli scatena". Stentiamo a capire soprattutto in Italia,
perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa
urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide -
era il '79, dilagava il terrorismo - nell'apologo Prova d'Orchestra. Il
tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come
degenera in urlo, e perché degenera.
L'Italia benpensante
accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell'autore buie
propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio,
perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia
sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non
ebbe. "Tutto è prova d'orchestra", disse il regista. E sulla pellicola
capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista,
clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati
e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di
simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di
ammansire l'ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi
mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato
attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i
malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo
clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell'Italia smarrita e
infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la
gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l'autorevolezza che
accresce l'autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i
conti, e a chieder conto. Non dimentichiamo la fine del film di Fellini:
il direttore d'orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla
scomposte, mescolando vocaboli italiani e parole d'ordine naziste.
"Estrema pazienza e estrema cura", questo il comando secondo Conrad:
oltrepassata la linea d'ombra, sempre possiamo mancare la prova,
sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco
perché la via di Monti è così stretta.
(25 gennaio 2012)
© Riproduzione riservata
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